IL PIEDE GRECO di Eros Tumbarello

Maggio 27, 2008

 

 

Può esserci bellezza in un piede? Per poter parlare di bellezza bisogna riferirsi a dei parametri estetici e culturali, calcolati sulla storia di un popolo, sulla sua morale. Il mio piede è greco, l’alluce è corto più dell’indice e del medio. (Ma a cosa ci serve l’indice del piede se con esso non possiamo indicare?). E’ possibile che una ragazza si innamori di un deforme? Una serie di domande ti pongo. Riusciresti tu ipotetica ragazza ad amare un nano osceno? Un nano che abbia tutte le carte in regola per essere osceno? Un nano che si caratterizzi per le bave alla bocca, l’espressione insensata come la raffigurazione di una finta parete bianca. A quali parametri dobbiamo riferirci per giudicare l’oscenità di un individuo di questo tipo? Per quale motivo disprezziamo le sue bave? Ho le prove che individui con la bocca asciutta e un taglio di palpebre normale usufruiscano del proprio aspetto banale per essere accettati dalla collettività. Ma è proprio nel concetto di normalità che andrebbe cercata la stortura o il gioco di prestigio. Le bave fanno inorridire. Potrebbe essere un discorso legato alla sensazione istintiva e spiacevole che provoca la viscosità. Il contatto delle mani con la bava mette i brividi. L’altezza poi è una forma di potere, una sua rappresentazione. Probabilmente entrano in gioco fattori biologici a creare un’opinione nel nostro interlocutore. La forma arrotondata del mio piede, come la corolla di un fiore, risponde ad una regola elementare di armonia: il cerchio, la curva, la morbidezza delle linee crea nell’osservatore il piacere. La forma a scaletta del piede volgare, a partire dall’alluce fino al mignolo, non crea la simmetria che culla lo sguardo. C’è simmetria nella combinazione specchiata di entrambi i piedi quando ci alziamo dal letto e li posiamo a terra per cercare le pantofole. Ma ciascun piede volgare è asimmetrico, osceno a suo modo, come un mostro sghembo. Certo l’equilibrio è piacevole anche se a volte può essere noioso.

Ho sempre avuto un’opinione del mio piede, come si tratti di una persona. Quando lo libero dalla calza posso sentirne il respiro, una sorta di alito mentolato che mi fa venir voglia di correre nell’erba. Ho cercato in ogni modo di imporre l’attenzione su questo dono di Dio ma nessuno sembra rendersene conto. “Avete visto il mio piede?” Domandavo. Ne ho offerto la vista in dono e il profumo, ma pochi hanno saputo riconoscergli un valore congruo, come auspicato. Dal piede si comprende lo spirito della gente, l’animo umano si prolunga fino all’estremità, il sentimento ci percorre come un fulmine e si scarica al suolo forgiando il piede, lo apre come una corolla elettrizzata che sboccia, fiore aperto spalancato, divelto dall’interno spanato, in mostra di sé come un cuore in mano. Andrebbe offerto nelle sere d’agosto, quando si sta sulla sdraio a prendere il fresco. Parlo di lui come di un figlio di cui andare orgogliosi, e ogni volta l’atto di sfilarlo dal calzino é liberatorio e preparatorio all’elogio. Le donne ci possono amare per il coraggio o per il potere, ma nessuna capisce quanta forza il piede trattiene in petto, perché il mio piede ha petto e cuore. Quando sono in piedi e gravo equamente sul suolo, i piedi sono come le fondamenta di un mondo, proni sulla terra, umili come sono i grandi. Solo gli eroi si sacrificano. Lo metto sotto un lume, la sera, e lo guardo. Lo accarezzo. I figli si baciano solo nel sonno, e io sogno di baciarlo quando dormo perché da sveglio mi è impossibile pensare di allungare così tanto il collo.

Un compagno di viaggio testimoniò che il mio piede non aveva alcun odore, eppure é vero che abbiamo condiviso una tenda da campeggio dormendo ciascuno in senso inverso rispetto all’altro.

La strozzatura del collo del piede, picco di una svasatura sui fianchi, è come la mascella di un cavallo vista da sopra e si dilata in una forma a ventaglio. Le vene azzurre solcano i tendini come serpenti d’acqua.

Bisognerebbe bagnarli ogni sera dopo l’apnea interminabile nelle scarpe. Respirano, attraverso ogni poro, d’un respiro millesimale e impercettibile,  come se ogni cellula bevesse la sua bolla d’ossigeno in silenzio, con la testa nella scodella per non perdere un solo respiro. Il dono delle nostre cellule è che esse non pensano a noi sennò impazzirebbero come a voler noi immaginare l’universo. 

In passato qualcuno lo ha esplorato. Qualcuno come l’Ulisse coi Ciclopi. Ogni vena cedeva sotto la pressione del pollice ma senza lasciare solchi nella carne giovane. E se il piede si ripiegava su se stesso a riflettere, rughe del pensiero ne increspavano la base. Provate ad accarezzare la nuca di una donna, lui sfiorava il collo del piede lungo la curvatura. Provate a intrecciare le vostre dita alle dita di chi amate, lui intrecciava le sue ai piedi, i tendini s’allargavano in una specie di respiro, la struttura tesa vibrava, plasticamente dolce, come a ricevere, come in un abbracciarsi. Attraverso il suo piede il suo cane lo amava. Vivevano un rito di preparazione alla passione che di per sé è già passione, è già fuoco che basta a se stesso, che si divora. La bestia docile levigava con la lingua tra le dita dei suoi piedi, e perlustrava meticolosamente ciascuno di quei canaletti con la dedizione dell’amante.

Se provava a guardarne la pianta portandoselo sulla coscia, era il petto di una colomba, la prospettiva di una collina da cui spuntano cinque teste di esploratori. Di profilo è il fianco di una nave aggredita da vene di ruggine. Dalla mia altezza è un pesce preistorico. Una famiglia di cinque dita che si stringe, la strada si percorre insieme, è finita se non si resta uniti.  

 

 

 

 

 

 


NOTTE di Emanula Mori

Maggio 23, 2008

talentisprecati

Notte che non passa,

fatta di lacrime e pensieri,

fatta di incubi e preghiere.

Notte che dura una vita intera,

fatta di ricordi e di momenti,

fatta di strani turbamenti.

Notte che mi confonde,

che mi tiene sveglia ad aspettare,

che mi illude tutte le volte che domani possa cambiare.

Notte che mi prende piano,

che mi avvolge nel suo buio stringendomi la mano,

che mi offusca la mente con il suo silenzio senza tempo.

Notte che mi somiglia

che resta sola e silente mentre tutto intorno il mondo risplende,

che resta ferma ad aspettare che il giorno la venga ad ammazzare.


BUONANOTTE AMORE MIO… Dinesha Di Francesco

Maggio 23, 2008

Se un dì mi chiederai:

Sei tu mia madre?”

Risponderò di sì.

Se ribatterai:

Ma nonna è bianca

Risponderò di sì.

Se incuriosito mi

guarderai: “Perché?”

Risponderò: “lei è la mia mamma”.

Incredulo dirai:

“Davvero?”

Risponderò: “Non mi ha dato la vita, è la mia vita”.

Buonanotte amore mio,

quando nascerai,

sarà un buongiorno.


DANS LE METRO’ di Filomena Pucci

Maggio 21, 2008

 

 

 

DANS LE METRO’
Entro in metrò, è una domenica sera, non è presto né tardi, forse sono le dieci. Ho passato il pomeriggio a vedere un film alla Videoteca de Les Halles, almeno ho l’impressione di fare qualcosa di buono. Mi siedo distrattamente, vicino allo sportello del metrò, non ho voglia di addentrarmi nel ventre del vagone, non ho voglia di vedere le persone dentro, non ho voglia di immaginarmi le loro storie, tanto m’annoierebbero lo stesso.
Tra la noia e la lacrima alzo gli occhi e vedo lui, seduto davanti a me, simmetricamente al mio posto.
Chiudo gli occhi e li riapro, veloce potrebbe sparire.
Lui è ancora là, non mi ha vista.
I miei occhi si fissano sul suo viso, deve sentirne immediatamente il peso perché alza la testa e mi guarda. Ma non mi vede. Il suo volto non reagisce, non è né contento né spaventato.
“Beh! Però potresti almeno accennare un sorriso, un saluto” penso. Continuo a guardarlo, lui questa volta fissa i suoi occhi nei miei.
Mi ha vista ma continua a non reagire.
“Forse non è lui”, ma poi io continuo a guardarlo, e guardandolo sovrappongo quel viso a quel che ricordo di lui, coincide “E’ lui!”. Quegli occhi nerissimi, come due piccole biglie di vetro lucido, che sembrano senza espressione ma che se mi avvicino slurp, mi risucchiano. Quella faccia bianca, quasi trasparente come la neve della Russia dalla quale è scappato da ragazzino insieme al padre. Il cappotto, un loden nero un bel po’usato, che lo fa così discreto in mezzo a tanti ma forte e sicuro come è lui. Io gli sorrido, bisogna pure aver il coraggio delle proprie idee, per me va bene anche solo essere amici ma dimenticare tutto fino a scordarsene no, non lo permetto io sono forte. Io ho coraggio.
Improvvisamente si alza, viene verso me, lo conosco, è lui, adesso arriva. Eccolo si avvicina, sorridendo, apre la bocca per parlare, guarda me e sta per parlarmi.
E lui come se avesse ascoltato tutti i discorso nella mia mente, come se la mia bocca muta gli avesse parlato, come se stesse rispondendo alla mia domanda dice: “Desolè je suis pas lui”
La metro si ferma e lui scende.


L’INFAUSTO COACERVO di Eva Pratesi

Maggio 19, 2008

 

 

 

Coacervo,

 ammucchio di persone affastellate sul cappello del re.

Tornava, scontato, dopo un giorno di razzia nel circolo dei giusti oratori e si chiedeva,

non senza annaspare,

cosa fosse quel groviglio sudaticcio sulla sua chioma lucente.

Rideva, rideva e i denti allargati su una fronte spianata fingevano di non soffrire il peso incombente dell’infausto coacervo. “Sfollate!”

Gridava da sotto il cappello mentre là sopra la folla saltava sulla musica di un clarinetto.

L’usignolo rimava e volando seguiva i balzi della scimmia drogata da dietro la porta.

 Il re era esausto e non trovava il modo di maritarsi.

 Ma quale fanciulla, Abbagliata da uno smagliante sorriso avrebbe pettinato quel suo coacervo???

Nessuna da secoli si era più fatta viva e il povero re,

Represso e infelice, Invidiava l’ammucchiata celebrata sulla sua testa.


Aquiloni che non volano

Maggio 19, 2008

Mi ricordo, quella volta, che non potevo trovare l’arnese maloffio che introducendolo nel posto addutto poteva schiudermi l’uscio babuscio. Quindi, cioè, di botto, non scartascrollarmi nell’abitacolo addutto ad abitacolazione e prendere il maglioncello. Che ora, mi spiego, ero così uscito un po’ di perdifiato senza contare la malauguratezza scismatica che prentendeva da me il brivido del freddo. Cioè, mi spiego, ero scito e facea na cifra freddo.

studiogrullo


alba jazz(trilogia)episodio 1

Maggio 18, 2008

 

Cadevano b1ca580747eb4ece569ec4bc00ecfd31.jpgle stelle. Gli sguardi si alzavano al cielo colmi d’imbarazzo,timorosi d’incontrarsi,di dividere qualcos’altro oltre alla sabbia su cui sedevano vicini. All’orizzonte una nave trasudava ritmi lontani. Gocce di Jazz, schizzi d’acqua salata sfociavano roventi a rimarginare una ferita aperta al gusto di sangue amaro.
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Un destino comune suggerivano le coincidenze, da lui capito e da lei mai condiviso. Eppure chiaro, evidente. Proprio come il riflesso bianco della luna evidenziava la schiena di lei coperta dall’oro mosso dei suoi capelli. Avrebbe voluto guardarla negli occhi ma si rese conto che lei non si sarebbe mai voltata e così,invece di provare a prenderla,decise di lasciarla andare,di lasciarla sola al suo destino…e al diavolo tutto,anche quell’angelo biondo sdraiato in terra a guardare il mare. Finiva li quel gioco crudele e finiva l’estate. Le rose appassirono invano,le canzoni piano si spensero e le parole non fecero breccia e presto vennero da lei dimenticate. Lui partì accompagnato da orgoglio e nostalgia consapevole che prima o poi,per mano del tempo, orgoglio e nostalgia lo avrebbero lasciato per lasciar posto ai soliti ricordi,all’insolita monotonia… Ma lui continuava a cercarla. La cercava in mille volti,in mille notti senza senso e senza un mattino dopo e lei, che ricercava per dovere di professione, di tanto in tanto si perdeva nel pensiero sereno di colui che senza di lei non trovava pace. 


il filo spezzato(trilogia)2 episodio

Maggio 18, 2008

il filo spezzato(trilogia)2 episodio

 

c6cb78df9ef600baf49b512346857b51.jpgAnziché cocente bruciare adesso il sole,tiepido scaldava. Il tempo aveva ripreso a farla da padrone e i giorni sapevano di giorni,di ore scandite da un ciclo perenne, da un tic e poi da un tac che adesso scorrevano e non stagnavano in un istante che non si sarebbe ripetuto,che ormai non poteva essere cambiato.
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Lui arrivò in cerca di risposte ma presto smise di porsi ogni domanda; non ne voleva più sapere,ne più pretendeva di capire. Se l’era ripromesso,ancora prima che lei entrasse nella sua vita,subito dopo che un grande amore scappasse via, che sarebbe solo andato incontro da quel giorno in avanti,che non avrebbe più inseguito niente e nessuno. Ed ora che nulla,in fondo,era stato e quindi niente era finito, ricominciare era ancora più facile. Sentiva che per essere felice non era ancora troppo tardi ma di sicuro il telefono e la voce di lei,dall’altra parte della cornetta, tuonarono troppo presto. Diceva di non essere molto lontana lei che era ancora molto vicina’chiedeva un incontro…chiedeva troppo ma non le fu negato niente. Lei,in fondo, non aveva patito,non aveva capito,aveva sempre evitato e non aveva mai creduto in ciò che lui aveva dovuto smettere di credere. Così, dopo quell’ultimo incontro in riva al mare, i due si rincontrarono:lei gli sorrise e lui ne ebbe paura. Trattenne la rabbia e la voglia di abbracciarla ma non si trattenne molto. Bevvero qualcosa,scoppiò qualche risata, ma la serenità di lei lo scuoteva ancora e si rese conto che il tempo non aveva ancora mantenuto la sua promessa,che lei non avrebbe cambiato strada e che per lui era arrivato il momento di cambiare aria…chiese scusa,inventò un pretesto qualunque e scappò via e da quel giorno lei di lui non ne seppe più nulla. Passarono mesi e lei, per mano del destino,sbagliò numero in un momento sbagliato ed entrambi si meravigliarono quando le loro voci si ritrovarono dopo tutto quel silenzio. E di tempo ne era passato, tanto che il canto di lei era finalmente lontano dalle orecchie e dal cuore di lui. Lei sembrava non volesse smettere di parlare e lui le lasciò dire fino all’ultima parola. “acqua nel deserto”, disse lei, che forse in quel momento lo aveva conosciuto per la prima volta ma lui,che ormai aveva rimosso tutto ciò che di buono aveva,penso che l’acqua nel deserto non era altro che acqua sprecata miseramente. E così lei si rese conto che forse lui avrebbe davvero potuto darle qualcosa,qualcosa che,anche se non sapeva cosa fosse,ugualmente le iniziava a mancare. Lo stesso battito di nostalgia,tempo dopo, la avvolse quando tra la folla, riconobbe la schiena di lui e per la prima volta lo inseguì e poi si lasciò andare in un tenero saluto. In quello stesso slancio,però,lei presto si accorse di stringere granito. Nei suoi occhi presto si spense la luce che quell’incontro aveva acceso. Si guardò tra le mani e non trovò che un pugno d’aria, un piccolo niente di quel nulla che aveva saputo coltivare. La cosa la rattristò ma non ne fece un dramma perché lei aveva solo percepito e non capito ciò che il destino,per tutto quel tempo,le aveva offerto invano. A lui di quell’incontro non rimase niente. Per lui era solo una vecchia e piccola ferita di una vita che ormai non gli apparteneva,di un passato che rinnegava. Sembrava proprio che il destino avesse gettato la spugna in questa storia,che il fato si fosse arreso a due piccole volontà che gli avevano sottratto il potere dell’esito,dell’ordine delle cose,dell’ultima parola,dell’ultima scena di un film che adesso vedeva i suoi protagonisti sempre più lontani dal lieto fine. Perché adesso quel solco era diventato un abisso,uno spazio invisibile e irraggiungibile per i due che si accingevano a divenire definitivamente,l’uno agli occhi dell’altra, immagini sfocate, sagome lontane,il vago ricordo di un fuoco spento  ancora prima di bruciare..


il bacio rubato(trilogia)3 episodio

Maggio 18, 2008

76128e092230e8674303b8b3f33a53ba.jpgDue labbra si sfiorano. Lei sorride,imbarazzata,sale in macchina e corre via verso casa.

Lui resta fermo,basito,con il labbro inferiore tra i denti ad assaporare quell’attimo che forse mai si sarebbe ripetuto.a985e69d7ee7a19a63fe91b75408601e.jpg

 Sarebbe partito all’indomani sul primo treno diretto altrove,non per sempre ma almeno il tempo necessario per dimenticare quello slancio scherzoso di lei,che mentre andava non sentiva il “trac” del cuore di lui che  si sgretolava per la seconda volta in pezzettini ancora più piccoli…

 

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E valli a riattaccare,quei sentimenti liberati da uno schiocco che rimbombava ancora nella testa di lui…

e vattele a scordare,quelle labbra color fiori di pesco al sapore morbido del burro di cacao.

Aveva detto lei,prima del bacio,aveva parlato di quell’altro e lui aveva capito,non ciò che lei voleva dire ma ciò che lei sentiva…

e lei sentiva per l’altro quello che lui sentiva per lei!

Aveva provato a distrarla, lui,ma poi aveva pensato che il dolore non era certo una cosa solo sua e glieno aveva lasciato vivere…

I due avevano anche passeggiato,ancor prima delle parole e del bacio,e lui aveva fantasticato,aveva sperato che quella strada continuasse fino all’infinito e non fino al negozio di dischi,come sempre…

I due camminavano e ridevano e non si accorgevano che camminavano sulla vita che passava…

e non capivano nemmeno che era quello il senso di tutto ciò che cercavano:non ciò che si trova alla fine della strada,bensì quello che si prova mentre quella strada si percorre…e loro sorridevano e non se ne accorgevano che,voltandosi indietro,a quella felicità voltavano le spalle…o forse no,

lui lo sapeva,ma sentiva che non doveva convincere per vincere una felicità che anche lei doveva conquistare e se proprio non la vedeva…pazienza,se la vita era una strada lei era il suo vicolo cieco,indietro lui non sarebbe tornato e per andare avanti…beh,toccava a lei abbattere il muro del dubbio e prenderlo per mano…

Ma di dubbi ve n’erano pochi nel cuore di lei ,che cercava solo una via di fuga dal pensiero dell’altro che le batteva in testa come un piccone.

E così,col labbro in bocca e il cuore sparpagliato tra le siepi circostanti,le diceva ,rabbioso nella mente “addio per sempre”…come sempre.


we three. Feel like an incubator (alexa)

Maggio 16, 2008
we three. Feel like an incubator

Oggi mi vedresti meno febbricitante di ieri, ma sono tornata a casa mia.
La paura di lasciare tutto ancora una volta adesso la sento, ne sento l’odore. Sento che insieme a te sto perdendo anch’io un legame a questo suolo. Tu secerni paura di andar via, e partirai da solo.
E nella spinta che sento per voi due, per te e per colui che ti ostini a cercare nella notte e che non ammetterai mai di amare in fondo, che risiede la mia curiosità. Lui è più giovane, più carico, più bello. Vorresti possederlo e inglobarlo come identità, lo so, non sopporti che mi sia stato vicino per una manciata di ore, non sopporti di non aver partecipato. Tanta bellezza sottratta ai tuoi occhi proprio sul più bello.
Mentre vedo nuda questa umanità che pulsa e secerne timori e dubbi, mi si allarga il ventre, ti fagocita, fagocita i tuoi emuli e le tue proiezioni…e ti zittisce. Sei tornato feto. Partirai verso una nuova nascita. Non sei mai nato. Non ne hai memoria.
Non so dove andrò, magari torno a cercarlo, priva di feto, ancora una volta risorta da un cataclisma.
Un fresco tremito mi indicherà la strada, come sempre.
Capita che 2 o 3 siano solo numeri e non l’amore dei freak. A volte no.
Le nostre complesse identità bombardate di stimoli sono ingestibili; posso cullarvi in questa certezza, fanciulli senza peso, menti acerbe dalle incredibili intuizioni, feti luminescenti.

Noi tre siamo nati in uno strappo troppo forte.

Troppo forte per la mente di un bambino.

In un incubatoio di rettili.