IL CERCHIO di M.Fernanda Veron

giugno 5, 2008

 

Il cerchio è la misura più infame con la quale misurare la propria resistenza.

 

Dal cerchio, nel cerchio. Se non ti fermi, non sai se stai fuori o dentro di esso.

Non sai se ti respinge o se ti centrifuga, non sai se ti puoi salvare,

se cadere dentro o fuori, non sai se potrai resistere ad un ‘altro giro.

 

Non ti puoi nascondere, non ti puoi fermare, non ci sono angoli nei quali sostare, quando sai di non poterlo fare, ruoti intorno al cerchio e insieme ad esso.

 

Evochi l’universo dentro di te, creando anche tu lo stesso sentiero millenario, calchi perfettamente il solco del disegno maledetto.

 

L’uomo nasce dalla spirale e se ne va dentro di essa.

 

 

L’abbandono, il deperimento, l’autocombustione della materia ,del corpo, non si porta via con sé nemmeno un grammo del dolore accusato. Lo spazio annega nel silenzio mentre il ricordo crea il danno permanente

così

il bianco emerge e

se poteva chiamarsi luce

ora è solo il nulla.

 

Si perde la memoria se una visione collettiva turba la propria intimità. Non rispondo più nemmeno al mio nome.

 

Divento più crudele quando intorno a me le parole squillano cinguettii pastosi e nauseanti

crollo nel sonno dei vivi.

Verso il buio il nulla avanza e le nubi avvertono il cambiamento , se pensi di resistere alla tua danza perpetua sai anche quante volte sei caduto.

 

Stanco,stanco,stanco di riesumarti preferisci non parlare. Consapevole del tuo amore per gli altri, ti senti inetto per quel poco che riesci a fare.

 

Una volta, ricordo, sapevo incoraggiarmi ed ora mi chiedo se domani saprò sopravvivere (alla mia dispersione).

 

Non ho mai vissuto la sicurezza degli oggetti ma perdermi tra questi, in un momento di abbandono, ferisce i miei sentimenti.

 

Vedo attraverso, lo scheletro di tutte le cose, vedo l’antico e il futuro, vedo grosse navi all’ orizzonte sorvegliare le coste.

 

 

 


Ora…di Agostino Acri

giugno 5, 2008

.

Ora non sento.

I tuoi passi non arriveranno,oggi,

i tuoi occhi non si poseranno da qualsiasi altra parte lontano da me.

saperlo non ha significato accettarlo.

volevi “volartene” via e l’hai fatto.

volevi liberarti e sei spiccata su un dolore che m’hai lasciato.

Ora è freddo.

 Tutto il resto brucia.

Il sole è coperto da  nuvole di cose che potevano essere.

Le parole raccolte per  te taceranno.

Qualcosa dovrò pur strappare da dentro

O questa lama,

Questo tempo,

Triterà e confonderà…

Come fossi qualsiasi altra cosa e non questa…

Forse avrei dovuto osare.

Avrei avuto la tua pelle addosso , adesso,

non unghie nervose a trapassare la mia.

Non c’è sosta nè pace.

qualcosa s’è fermata comunque.

Come pioggia sulla finestra.

Lacrime sugli occhi…

Non lavano nè bagnano:

solcano.

In questa terra di mezzo che ha diviso

Un pensiero sfiorato da mani che si sono toccate,

Perché  quel volo non si poteva fermare…

 

ora so

poteva cambiare l’inizio

la fine sarebbe finita così.

Comunque.

Sono stati solo attimi.

Petali e spine.

Ci siamo solo riconosciuti

Nell’attimo d’aria.

Tra te che spiccavi

Ed io che cadevo.


IL DESIDERIO di Ilaria F.

giugno 5, 2008

 

 

Reprimi può che puoi questo fuoco che ti accende,
distraiti dalle voci ammalianti provenienti dai tuoi incoffesabili desideri,
reprimi, reprimi l’istinto che ti vuole bestia, concubina del diavolo peccatore
non cedere alle sue lusinghe, egli dentro di te
ma non è solo che parte di te
 
Ascolta la freschezza e la leggerezza della tua coscienza
che sà guardare al di là dei tuoi occhi,
segui il sentiero della ragione
che ti porterà all’evoluzione
Discostati dai pensieri della tua carne, chiudi gli occhi..e pensa!
 
Tu non esisti, non sei niente
Sei fatto di aria, ma dentro di me ardi
non sei vera carne, nè hai una vera personalità
ma sei il mio oggetto
la mia arma per sentirmi viva
per riconoscere a volte di essere reale
 
Tu non esisti, non sei niente che niente
eppure non voli via lontano
non mi lasci in pace vivere i momenti nel momento in cui vanno vissuti
ma mi costringi a desiderarli e immaginarli continuamente
così che nella realtà non appaiono con la stessa enfasi
 
Oggi hai gli occhi profondi e lo sguardo felino, e domani?
quali sembianze assumerai mio caro amico/nemico?
 
 


SIMBOLI di Elia Banelli

giugno 4, 2008

 

 

Sei e rappresenti la metafora di tutta una vita,

il premio per chi ha commesso buone azioni,

l’obiettivo esistenziale dell’uomo qualunque,

la meta unica che può raggiungere il genio solitario,

ma anche il più sprovveduto degli incapaci…

Sei il profumo della mia anima,

la salvezza dal dolore,

la bontà contrapposta all’odio.

Ti amo,

ed è la cosa più bella

che potesse mai capitarmi”.


IL PIEDE GRECO di Eros Tumbarello

Maggio 27, 2008

 

 

Può esserci bellezza in un piede? Per poter parlare di bellezza bisogna riferirsi a dei parametri estetici e culturali, calcolati sulla storia di un popolo, sulla sua morale. Il mio piede è greco, l’alluce è corto più dell’indice e del medio. (Ma a cosa ci serve l’indice del piede se con esso non possiamo indicare?). E’ possibile che una ragazza si innamori di un deforme? Una serie di domande ti pongo. Riusciresti tu ipotetica ragazza ad amare un nano osceno? Un nano che abbia tutte le carte in regola per essere osceno? Un nano che si caratterizzi per le bave alla bocca, l’espressione insensata come la raffigurazione di una finta parete bianca. A quali parametri dobbiamo riferirci per giudicare l’oscenità di un individuo di questo tipo? Per quale motivo disprezziamo le sue bave? Ho le prove che individui con la bocca asciutta e un taglio di palpebre normale usufruiscano del proprio aspetto banale per essere accettati dalla collettività. Ma è proprio nel concetto di normalità che andrebbe cercata la stortura o il gioco di prestigio. Le bave fanno inorridire. Potrebbe essere un discorso legato alla sensazione istintiva e spiacevole che provoca la viscosità. Il contatto delle mani con la bava mette i brividi. L’altezza poi è una forma di potere, una sua rappresentazione. Probabilmente entrano in gioco fattori biologici a creare un’opinione nel nostro interlocutore. La forma arrotondata del mio piede, come la corolla di un fiore, risponde ad una regola elementare di armonia: il cerchio, la curva, la morbidezza delle linee crea nell’osservatore il piacere. La forma a scaletta del piede volgare, a partire dall’alluce fino al mignolo, non crea la simmetria che culla lo sguardo. C’è simmetria nella combinazione specchiata di entrambi i piedi quando ci alziamo dal letto e li posiamo a terra per cercare le pantofole. Ma ciascun piede volgare è asimmetrico, osceno a suo modo, come un mostro sghembo. Certo l’equilibrio è piacevole anche se a volte può essere noioso.

Ho sempre avuto un’opinione del mio piede, come si tratti di una persona. Quando lo libero dalla calza posso sentirne il respiro, una sorta di alito mentolato che mi fa venir voglia di correre nell’erba. Ho cercato in ogni modo di imporre l’attenzione su questo dono di Dio ma nessuno sembra rendersene conto. “Avete visto il mio piede?” Domandavo. Ne ho offerto la vista in dono e il profumo, ma pochi hanno saputo riconoscergli un valore congruo, come auspicato. Dal piede si comprende lo spirito della gente, l’animo umano si prolunga fino all’estremità, il sentimento ci percorre come un fulmine e si scarica al suolo forgiando il piede, lo apre come una corolla elettrizzata che sboccia, fiore aperto spalancato, divelto dall’interno spanato, in mostra di sé come un cuore in mano. Andrebbe offerto nelle sere d’agosto, quando si sta sulla sdraio a prendere il fresco. Parlo di lui come di un figlio di cui andare orgogliosi, e ogni volta l’atto di sfilarlo dal calzino é liberatorio e preparatorio all’elogio. Le donne ci possono amare per il coraggio o per il potere, ma nessuna capisce quanta forza il piede trattiene in petto, perché il mio piede ha petto e cuore. Quando sono in piedi e gravo equamente sul suolo, i piedi sono come le fondamenta di un mondo, proni sulla terra, umili come sono i grandi. Solo gli eroi si sacrificano. Lo metto sotto un lume, la sera, e lo guardo. Lo accarezzo. I figli si baciano solo nel sonno, e io sogno di baciarlo quando dormo perché da sveglio mi è impossibile pensare di allungare così tanto il collo.

Un compagno di viaggio testimoniò che il mio piede non aveva alcun odore, eppure é vero che abbiamo condiviso una tenda da campeggio dormendo ciascuno in senso inverso rispetto all’altro.

La strozzatura del collo del piede, picco di una svasatura sui fianchi, è come la mascella di un cavallo vista da sopra e si dilata in una forma a ventaglio. Le vene azzurre solcano i tendini come serpenti d’acqua.

Bisognerebbe bagnarli ogni sera dopo l’apnea interminabile nelle scarpe. Respirano, attraverso ogni poro, d’un respiro millesimale e impercettibile,  come se ogni cellula bevesse la sua bolla d’ossigeno in silenzio, con la testa nella scodella per non perdere un solo respiro. Il dono delle nostre cellule è che esse non pensano a noi sennò impazzirebbero come a voler noi immaginare l’universo. 

In passato qualcuno lo ha esplorato. Qualcuno come l’Ulisse coi Ciclopi. Ogni vena cedeva sotto la pressione del pollice ma senza lasciare solchi nella carne giovane. E se il piede si ripiegava su se stesso a riflettere, rughe del pensiero ne increspavano la base. Provate ad accarezzare la nuca di una donna, lui sfiorava il collo del piede lungo la curvatura. Provate a intrecciare le vostre dita alle dita di chi amate, lui intrecciava le sue ai piedi, i tendini s’allargavano in una specie di respiro, la struttura tesa vibrava, plasticamente dolce, come a ricevere, come in un abbracciarsi. Attraverso il suo piede il suo cane lo amava. Vivevano un rito di preparazione alla passione che di per sé è già passione, è già fuoco che basta a se stesso, che si divora. La bestia docile levigava con la lingua tra le dita dei suoi piedi, e perlustrava meticolosamente ciascuno di quei canaletti con la dedizione dell’amante.

Se provava a guardarne la pianta portandoselo sulla coscia, era il petto di una colomba, la prospettiva di una collina da cui spuntano cinque teste di esploratori. Di profilo è il fianco di una nave aggredita da vene di ruggine. Dalla mia altezza è un pesce preistorico. Una famiglia di cinque dita che si stringe, la strada si percorre insieme, è finita se non si resta uniti.  

 

 

 

 

 

 


NOTTE di Emanula Mori

Maggio 23, 2008

talentisprecati

Notte che non passa,

fatta di lacrime e pensieri,

fatta di incubi e preghiere.

Notte che dura una vita intera,

fatta di ricordi e di momenti,

fatta di strani turbamenti.

Notte che mi confonde,

che mi tiene sveglia ad aspettare,

che mi illude tutte le volte che domani possa cambiare.

Notte che mi prende piano,

che mi avvolge nel suo buio stringendomi la mano,

che mi offusca la mente con il suo silenzio senza tempo.

Notte che mi somiglia

che resta sola e silente mentre tutto intorno il mondo risplende,

che resta ferma ad aspettare che il giorno la venga ad ammazzare.


BUONANOTTE AMORE MIO… Dinesha Di Francesco

Maggio 23, 2008

Se un dì mi chiederai:

Sei tu mia madre?”

Risponderò di sì.

Se ribatterai:

Ma nonna è bianca

Risponderò di sì.

Se incuriosito mi

guarderai: “Perché?”

Risponderò: “lei è la mia mamma”.

Incredulo dirai:

“Davvero?”

Risponderò: “Non mi ha dato la vita, è la mia vita”.

Buonanotte amore mio,

quando nascerai,

sarà un buongiorno.


DANS LE METRO’ di Filomena Pucci

Maggio 21, 2008

 

 

 

DANS LE METRO’
Entro in metrò, è una domenica sera, non è presto né tardi, forse sono le dieci. Ho passato il pomeriggio a vedere un film alla Videoteca de Les Halles, almeno ho l’impressione di fare qualcosa di buono. Mi siedo distrattamente, vicino allo sportello del metrò, non ho voglia di addentrarmi nel ventre del vagone, non ho voglia di vedere le persone dentro, non ho voglia di immaginarmi le loro storie, tanto m’annoierebbero lo stesso.
Tra la noia e la lacrima alzo gli occhi e vedo lui, seduto davanti a me, simmetricamente al mio posto.
Chiudo gli occhi e li riapro, veloce potrebbe sparire.
Lui è ancora là, non mi ha vista.
I miei occhi si fissano sul suo viso, deve sentirne immediatamente il peso perché alza la testa e mi guarda. Ma non mi vede. Il suo volto non reagisce, non è né contento né spaventato.
“Beh! Però potresti almeno accennare un sorriso, un saluto” penso. Continuo a guardarlo, lui questa volta fissa i suoi occhi nei miei.
Mi ha vista ma continua a non reagire.
“Forse non è lui”, ma poi io continuo a guardarlo, e guardandolo sovrappongo quel viso a quel che ricordo di lui, coincide “E’ lui!”. Quegli occhi nerissimi, come due piccole biglie di vetro lucido, che sembrano senza espressione ma che se mi avvicino slurp, mi risucchiano. Quella faccia bianca, quasi trasparente come la neve della Russia dalla quale è scappato da ragazzino insieme al padre. Il cappotto, un loden nero un bel po’usato, che lo fa così discreto in mezzo a tanti ma forte e sicuro come è lui. Io gli sorrido, bisogna pure aver il coraggio delle proprie idee, per me va bene anche solo essere amici ma dimenticare tutto fino a scordarsene no, non lo permetto io sono forte. Io ho coraggio.
Improvvisamente si alza, viene verso me, lo conosco, è lui, adesso arriva. Eccolo si avvicina, sorridendo, apre la bocca per parlare, guarda me e sta per parlarmi.
E lui come se avesse ascoltato tutti i discorso nella mia mente, come se la mia bocca muta gli avesse parlato, come se stesse rispondendo alla mia domanda dice: “Desolè je suis pas lui”
La metro si ferma e lui scende.


L’INFAUSTO COACERVO di Eva Pratesi

Maggio 19, 2008

 

 

 

Coacervo,

 ammucchio di persone affastellate sul cappello del re.

Tornava, scontato, dopo un giorno di razzia nel circolo dei giusti oratori e si chiedeva,

non senza annaspare,

cosa fosse quel groviglio sudaticcio sulla sua chioma lucente.

Rideva, rideva e i denti allargati su una fronte spianata fingevano di non soffrire il peso incombente dell’infausto coacervo. “Sfollate!”

Gridava da sotto il cappello mentre là sopra la folla saltava sulla musica di un clarinetto.

L’usignolo rimava e volando seguiva i balzi della scimmia drogata da dietro la porta.

 Il re era esausto e non trovava il modo di maritarsi.

 Ma quale fanciulla, Abbagliata da uno smagliante sorriso avrebbe pettinato quel suo coacervo???

Nessuna da secoli si era più fatta viva e il povero re,

Represso e infelice, Invidiava l’ammucchiata celebrata sulla sua testa.


Aquiloni che non volano

Maggio 19, 2008

Mi ricordo, quella volta, che non potevo trovare l’arnese maloffio che introducendolo nel posto addutto poteva schiudermi l’uscio babuscio. Quindi, cioè, di botto, non scartascrollarmi nell’abitacolo addutto ad abitacolazione e prendere il maglioncello. Che ora, mi spiego, ero così uscito un po’ di perdifiato senza contare la malauguratezza scismatica che prentendeva da me il brivido del freddo. Cioè, mi spiego, ero scito e facea na cifra freddo.

studiogrullo